Ricominciamo con il botto con gli articoli dedicati all’advocacy con un tema ancora sottovalutato che merita più spazio nel dialogo sulla disabilità: la questione del linguaggio da usare per raccontare la disabilità secondo le richieste della comunità di riferimento. Questo macrotema ha varie ramificazioni che tratterò con il tempo e ho potuto approfondire durante la stesura della tesi. La mia fonte principale, in questo caso, è l’attivista Iacopo Melio. Per chi volesse, lascio qui l’articolo di Melio come approfondimento.
La comunità disabile è molto eterogenea: le disabilità sono tante e, purtroppo, una larga parte di queste è considerata “invisibile” perchè legata alla sfera psicologica e mentale, le neurodivergenze sono molto spesso annoverate tra le disabilità “invisibili”. Uno degli advocate autistici più importanti in Italia è Fabrizio Acanfora, del quale ho in lista tutti i saggi che ha scritto con Effequ ma, per ora, ho letto solo Eccentrico, ovvero la sua autobiografia scritta sottoforma di saggio. Per il mio punto di vista su attivismo e (self) advocacy lascio questo articolo.
La premessa è che la comunità disabile italiana chiede di ritradurre disabled perchè la nostra traduzione è considerata obsoleta e fuorviante per la rivendicazione della propria autodeterminazione. A questo si ricollegano anche i diversi approcci alla disabilità: modello medico vs sociale. Concetti molto complessi che devo ancora studiare a fondo per potervene parlare in un futuro articolo, ma mi sembra doveroso citarli anche qui.
Per i due tipi di linguaggio che voglio trattare in questo articolo, come ho detto sopra, la comunità disabile è molto ampia quindi questi due tipi si alternano: il person first language prevede che la persona e la sua condizione vengano separate e la condizione diventi una caratteristica che la persona può introdurre nel discorso a sua discrezione, mentre nell’identity first language la persona si identifica con la propria condizione come forma di autodeterminazione e rivendicazione dei diritti e dei propri spazi. Quando ci si riferisce alla disabilità in generale è preferibile il person first, parlando quindi di “persona con disabilità“, mentre, in linea di massima, se ci si riferisce alle neurodivergenze, advocate e attivisti reclamano l’utilizzo dell’ identity first e di essere indicate, ad esempio, come “Persona autistica \ ADHD\ dislessica”, ecc….
Spero che questa infarinatura possa servirvi, mi sembra un modo efficace per riprendere le fila del discorso sull’advocacy. Ho intenzione di parlarvi di alcuni saggi che analizzano la neurodivergenza e il dibattito intorno al tema come Neurodivergente. Capire e coltivare la diversità dei cervelli di Eleonora Marocchini, psicolinguista che fa divulgazione sul tema della neurodivergenza sul suo account Narraction, o anche i saggi del già citato Acanfora, come In altre parole, scritto con Vera Gheno, che è molto affine a questo articolo per il tema trattato. Vera Gheno parla spesso di linguaggio inclusivo, come in questo saggio.
Ditemi pure la vostra, il dialogo è sempre ben accetto,
A presto,
Cate Lucinda Vagni
A me non cambia molto se mi dicono, per esempio, che sono una persona depressa con autismo (giusto per citare due mie condizioni, ma nel modo inverso in cui andrebbero dette). Non mi offendo, non mi sento sminuita. Ma capisco quanto per alcuni può essere importante. Quindi tutto ciò è molto interessante.
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Al di là di tutto, con alcune malattie mentali “suona meglio” il person first, come con il DOC, il PTSD o l’ansia, nel caso sia specificato se sociale o generalizzata, mentre, per esempio con borderline e depressione “suona meglio” il secondo. Sono punti di vista e va bene così. Sto rivalutando anche il fatto che molto spesso il person first legato all’autismo abbia fatto passare il messqggio che “è un qualcosa che puoi togliere dalla mente della persona”, come dicevo a Buio nei commenti sopra. Lì era una questione di malafede di chi ha diffuso quella formulazione, ma comincio a pensare che di per sè sia innocua. Io preferisco comunque l’identity first, ma non andrò mai ad attaccare chi usa l’altra forma.
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Io mi definisco persona autistica. Non ho l’autismo con me, come un peso da trasportare, come qualcosa che non fa parte di me.
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La penso esattamente come te, ma ci sono alcuni attivisti che usano il person first anche con l’autismo e preferiscono così per sè stessi, quindi non sarebbe giusto che qualcuno li offendesse per una loro scelta senz’altro motivata e si spera non collegata a una non accettazione di sè
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Se è una scelta della persona stessa, è da rispettare, anche se bisognerebbe chiedersi se è del tutto indipendente, o dettata da pressioni sociali abiliste, o da abilismo interiorizzato.
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L’abilismo interiorizzato è un altro problema grosso quando si parla di disabilità e alcune persone autistiche causano faide interne nella comunità perchè magari sono plusdotate e non vogliono condividere la diagnosi con chi ha anche disabilità cognitiva e un maggior livello di supporto. Queste situazioni non le reggo. Fermo restando che comunque anche se usi l’identity first puoi anche non voler esporti se non ti senti al sicuro, e questo è sacrosanto sempre, il nostro è un funzionamento e spesso è la società a disabilitarci. Non è che se per parlare di disabilità in generale si usa il person first la persona la considera un accessorio, semplicemente non ne parla senza contesto appena ha davanti degli sconosciuti, ma dj fatto può benissimo essere fiera di sè stessa sempre e comunque 😊
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Infatti poco mi aggrada sentire la frase: “soffrire di autismo”. Nella maggior parte dei casi, noi non soffriamo, sono le persone neurotipiche a farci soffrire.
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Ah su queste formulazioni patologizzanti sono pienamwnte d’accordo, ma identity first e person first non riguardano questo, perchè nessuna delle due forme è patologizzante. Il person first può diventarlo se uno specialista è in mala fede e vuole curare le neurodivergenze, altrimenti non ha niente di male
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come argomento, di sicuro molto interessante^^
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😊
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